BIPERSONALE – Gina Fortunato e Barbara Marchi BAM


Gina Fortunato

Gina Fortunato (1964) ha una solida formazione pittorica acquisita in primis attraverso la frequentazione dell’Accademia di Belle Arti di Bari, poi attraverso la pratica di scenografa teatrale, infine come pittrice che ha esposto in Italia e all’estero, ottenendo vari premi e riconoscimenti.
La sua arte si presenta in continua evoluzione, con motivi che trovano momentanea maturazione, ma che poi per la indefessa ricerca dell’artista, vengono superati attraverso nuove intuizioni e trattazioni linguistiche. Cerchiamo di darne uno spaccato attraverso questa breve trattazione.
Negli anni attorno al 2015 Fortunato evoca dimensioni cosmiche e stellari, galassie e universi lontani attraverso pennellate fluide e ricche di colori brillanti e vivaci che simulano gorghi o sciabolate di luce. Le pennellate che costruiscono le forme evocano moti celesti e luminosi, che sono in realtà raccordi con sensazioni ed analisi visive depurate di materia e di realismo, per arrivare ad un particolare tipo di astrazione, legata com’è attraverso una sorta di cordone ombelicale al motivo scatenante del reale, ma di un reale che corrisponde ad un’immagine mentale, a ciò che conosciamo ed anticipiamo attraverso la nostra esperienza. E’ un atteggiamento che ha una radice profondamente e romanticamente simbolista che orbita a cavallo del Novecento, in quanto il simbolismo dipinge l’invisibile, la cifra nascosta della natura e dell’animo umano, attraverso forme e immagini che queste alla lontana, in maniera misteriosa e magica, evocano. Sintomatico in questo senso è il quadro notturno denominato L’Incontro (2016) dove due forme chiare, luminose e avviluppate su se stesse si incontrano scatenando una magia di stelle. Lo stesso può dirsi per Esplosione Cosmica (2015), Attrazione (2015) o Fasci di luce (2016) dove l’andamento deciso e appassionato della pennellata parte da una sensazione visiva e mentale allo stesso tempo per riportare la stessa in maniera mimetica e astratta sulla tela. Quindi la forma particolare dell’astrazione di Fortunato ha questa radice interiore, profonda, con risonanze che dal microcosmo dell’uomo trovano corrispondenze nel macrocosmo dell’universo. Un paio d’anni più tardi l’artista raddensa la materia e posa lo sguardo sulla realtà con La mia strada (2017) e Linea d’Ombra I e II (2018), sempre trasfigurandola, ma lasciando intravvedere molto felicemente il motivo di un paesaggio possibile. C’è da chiedersi se magari in futuro l’artista non possa proseguire con questo interessante percorso che coniuga astrazione e realtà vista con la siderale lontananza o vicinanza di una potenziata lente bifocale. Finalmente veniamo agli anni più recenti dove si ripropone un plurimo ragionamento linguistico. Da una parte abbiamo Luce (2020) e Tra le pieghe di una vita (2020) che hanno la stessa matrice: sciabolate di colore luminoso in percorsi retti e acutangoli come la luce appunto oppure morbidi e avviluppati come delle vere e proprie pieghe di un tessuto impalpabile e trasparente. E’ evidente qui la consumata perizia tecnica di Fortunato, capace di ricreare attraverso forme e colori, sensazioni e percezioni riconoscibili dallo spettatore. A volte il percorso si fa più realistico e chiaro, persino carnale come in Oro nelle ferite (2019) oppure semplicemente poetico, quasi leopardiano, nel recentissimo Al di là del muro (2020). Queste due opere risentono di quel percorso che accelera l’accostamento con il reale, raddensano la materia, e si fanno metafora di una situazione esperienziale.
L’arte di Fortunato risente quindi di un atteggiamento che alla lontana trova una radice ancora all’inizio del Novecento e in particolare in quel percorso di inizio dell’astrazione contraddistinto da Kandinskij e il suo fondamentale scritto Lo spirituale nell’arte (1911), dove ai colori e alle linee corrisponde una grammatica determinata di sensazioni e di emozioni. Due precedenti importanti quindi per Fortunato, che beve alla fonte dell’astrazione della pittura interpretandola poi a suo modo e scavalcando così in maniera convincente i decenni.

Carmen Lorenzetti, Docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Bologna


Barbara Marchi – BAM

Barbara Marchi (1972), in arte BAM, ha avuto una formazione da ceramista al prestigioso Istituto ISIA di Faenza e nel 2016 ha deciso di fare un salto di qualità aprendo un negozietto tutto suo a Casalecchio di Reno che si chiama “BAM di Barbara Marchi”, dove mette a frutto la sua abilità tecnica di lungo corso con oggetti originali e fantasiosi. Lungo la parabola di questo percorso si iscrivono le preferenze, le attitudini e le scoperte dell’artista. In primis il suo amore per la materia e il modellare, quel suo mettere felicemente le mani in pasta per ricavarne una forma densa e piena di pieghe, rilievi, asperità. Questo modellare è una delle due tecniche della scultura: una è il modellare la materia morbida come la creta o lo stucco – diceva Rudolf Wittkower (sulla scorta di illustri precedenti) – l’altra è la scultura per via di levare che si fa con la pietra o il marmo. Quindi il partito di Marchi sta dalla parte del modellare, una tecnica che applica anche ai suoi quadri. Infatti i quadri sono estremamente materici e con un rilievo che vince la bidimensionalità della pittura per costruire un oggetto che sta a metà tra pittura e scultura, e in questo approccio sta la particolare cifra stilistica di Marchi. L’attitudine è quella dello scultore diciamo che usa il bassorilievo su una superficie piana, ma che poi scava anche nella materia e la graffia costruendo delle sorte di graffiti, la schiaccia con la spatola lasciando a nudo i rilievi e le tracce del suo fare. I gesti sono energici, ma non privi di aggraziati indugi dove l’artista modella una figura, traccia una nota musicale sulle righe di uno spartito, creando così quasi delle interiezioni all’interno del costrutto dell’opera. Infine il colore che è vivace, ricco, violento e pieno di infinite gradazioni, spesso applicato sopra la struttura come si fa appunto quando si dà la mano di pittura sopra all’argilla già modellata.
Questo approccio con l’opera evidenzia una sorta di contesa, di lotta che l’artista ingaggia con la materia, che vuole piegare per esprimere senza filtri, di getto e in maniera intuitiva il proprio stato d’animo, le proprie emozioni, la propria storia, fino allo spasimo talvolta. E’ un atteggiamento che richiama quel filone artistico che è l’espressionismo astratto negli Stati Uniti e l’informale in Europa, sorto a cavallo della seconda guerra mondiale e durato per oltre un decennio. Secondo questa corrente il quadro (soprattutto) doveva esprimere e contenere la soggettività dell’artista, doveva recare traccia densa dei suoi umori, letteralmente l’artista rovesciava sulla tela la propria interiorità. Il capitano assoluto di quel fare è stato – è noto a tutti – Jackson Pollock. I suoi grovigli densi di linee erano il risultato di uno sgocciolamento del colore sulla tela che veniva disposta a terra per contenerlo. Ecco, questa tecnica, inventata dall’artista, era la materiale corrispondenza della fuoriuscita sulla tela della propria irruenta intimità. Marchi quindi è debitrice di questo atteggiamento fortemente soggettivo che ha poi avuto altri momenti di ritorno, penso all’espressionismo degli anni Ottanta, periodo in cui ritorna sulla tela la materia, il colore, il rimosso dell’inconscio e dell’espressione individuale. C’è tutto questo in Marchi, rimeditato, ripreso e volto a nuova vita e slancio individuale. Non a caso i titoli dei suoi lavori in mostra: Felicità, Mi piego ma non mi spezzo, Nodo allo stomaco, Speranza indicano stati d’animo, emozioni, stati esistenziali. L’arte di Marchi quindi è intimamente legata con la vita, con la sua vita, ma nello stesso tempo esprime stati d’animo collettivi e universali, in cui ciascuno può riconoscersi. Il dramma della materia diventa dramma esistenziale e da personale si riflette in una dimensione altra che acquisisce un significato e una dimensione più vasti.

Carmen Lorenzetti, Docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Bologna

Apertura mostra – Sabato 14 Novembre 2020, h. 17.00

Spazio IAT, Palazzo Ricci Curbastro – Via San Vitale 27/A, Bologna

Recensione critica a cura della Prof.ssa Carmen Lorenzetti, docente di Storia dell’Arte Contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Bologna.

La mostra sarà visitabile dal 14/11/2020 al 24/12/2020 negli orari di apertura di Italian Art Touch consultabili sulla Home Page.

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